IN GIRO A RACCONTARE, ovvero…
Il Teatro di Narrazione,
contro le miserie del tempo
di Franco Del Moro
Il teatro è parola costruita e, tuttavia, è rivelazione
dinamica. Non appena l’uomo si serve del linguaggio per gettare un ponte fra se
stesso e gli altri uomini, non appena egli cerca la comunicazione sui conflitti
che lo affliggono, il linguaggio non è più strumento, è una manifestazione
dell’essere in quanto esperienza viva, legame psichico che ci collega al mondo
che abitiamo e da cui vogliamo ottenere tutto ciò che può dare.
Jean Duvignaud
“Il
Funzionamento dell’Uomo” è un monologo che da oltre due anni porto in
giro ovunque ci sia qualcuno ancora disposto ad ascoltare una storia.
Il racconto parte dalla
constatazione che quest’epoca sembra essere caratterizzata da un numero decisamente
alto di forme di disagio esistenziale, molte più che in passato, a cui
corrisponde un numero altrettanto alto di dispositivi per tentare di gestirlo:
le innumerevoli scuole psicologiche e le altrettanto innumerevoli scuole
spirituali, le stampelle della tecnologia, della scienza e quelle della chimica
sia legale –psicofarmaci- che illegale –droghe-, senza dimenticare le lusinghe
del capitalismo con la sua valanga di oggetti a cui affidiamo l’improbabile
compito di riempire il vuoto della nostra anima…
Tutto questo sembra però non funzionare
o funzionare pochissimo: la solitudine, l’infelicità, i legami sociali sterili
e una comunità priva di radici caratterizzano, oggi come non mai, la base della
vita degli individui in questa parte di mondo.
Io credo che ci sia più di un
legame diretto fra la qualità della vita delle persone e la qualità dello Stato
sociale che quelle persone compongono: Berlusconi e gli uomini come lui, tanto
per non fare nomi, non sono un incidente di percorso bensì l’espressione più
recente di un impoverimento culturale che viene da molto lontano.
Città brutte e degradate generano
una popolazione insoddisfatta che a sua volta crea una classe politica brutta
e degradata, così come una vita culturale livellata a livello di conformismo
catodico genera intellettuali e artisti allo stesso livello… e così via.
Potrebbe sembrare una provocazione,
ma persino il numero dei morti in incidenti stradali può essere indirettamente
messo in relazione con l’infelicità delle persone.
Le conseguenze di tutto questo si
notano subito: basta sfogliare un giornale e dalla prima all’ultima pagina
apparirà evidente anche al più distratto lettore che, come dice Hillman,
viviamo in un’epoca patologica.
A un certo punto della storia gli
uomini hanno abbandonato la strada che aveva portato al Rinascimento e
all’umanesimo, per imboccarne un’altra totalmente diversa, una strada dove la
poesia, le arti e l’armonia delle forme erano meno importanti del potere e del
profitto, con l’introduzione di una nuova forma di religione universale: il mercato,
dominato da un dio unico e terribile: il denaro.
Risultato di tutto questo è che ora
il semplice esistere è diventato fonte di una quantità incredibile di nodi da
sciogliere e disagi da sopportare.
Il rischio che tutti noi corriamo è
di perdere le nostre radici, quelle che passando per la Firenze del ‘600
arrivano sino a Seneca e vanno anche oltre, e di cadere preda della
disperazione, di non sapere cosa fare, come fare a uscire dalle secche
dell’anima…
Nei momenti di disperazione il
gesto più semplice che da sempre l’uomo fa è alzare gli occhi al cielo, e
allora scruta la volta celeste, uno degli spettacoli più affascinanti che gli
occhi umani possano vedere, il più democratico oltretutto, perché chiunque può
goderne, sia il re che il mendicante. Forse questo antico gesto serve a
ristabilire le giuste proporzioni fra le nostre meschinità e la grandiosità
dell’universo.
Il cielo è anche generoso di doni
inaspettati, per esempio una stella cadente, che con la sua magia può davvero
cancellare, come una spugna, una striscia di quella lavagna tutta
scarabocchiata e piena di calcoli astrusi e conti che non tornano che è la
nostra anima.
Proprio da questa lavagna, metafora
della nostra anima, inizia il mio monologo.
In realtà ce un’altra metafora che
viene subito prima: quando entro in scena il primo gesto che faccio è quello
di accendere una candela, metafora della nascita, dell’inizio di una nuova
vita… questa candela resterà accesa, a lato della scena, per tutto il tempo
sino al termine: l’ultimo gesto, alla fine del viaggio (e dello spettacolo),
sarà proprio quello di spegnerla e uscire di scena.
La lavagna viene subito dopo
l’accensione della candela. All’inizio naturalmente è candida, simboleggia la
purezza con la quale si viene al mondo… via via che il racconto procede e
l’ipotetico uomo di cui è emblema cresce incontrando le difficoltà e le crisi
esistenziali che sono in ognuno di noi, la lavagna si riempirà di segni, cifre
e scarabocchi imperscrutabili…
Ma a un certo punto l’abbandono, la
evito, la dimentico, la tolgo fisicamente di mezzo… proprio perché anche nella
vita continuare a fissarsi sui problemi oltre un certo limite non significa
risolverli ma aggravarli, renderli più seri e intricati di quello che sono.
Se si vuole cominciare davvero a
uscire dai guai a un certo punto si capisce che occorre prendere le distanze
dalle cose note, cercare strade veramente nuove e diverse, andare in territori
dove non si è mai stati prima.
Territori fisici, anche, ma
soprattutto interiori, perché la fuga nello spazio da sola non è sufficiente e
neanche tanto efficace per cambiare veramente le cose: andare in un posto nuovo
con un abito mentale vecchio non farà altro che dislocare altrove i vecchi
problemi di sempre che, infatti, nel tempo riemergeranno in tutto e per tutto
tali e quali a prima.
Se si vuole veramente rinnovare le
cose occorre che anche l’anima trovi nuove strade da percorrere e nuovi
territori da visitare, o ri-visitare.
A un certo punto della mia
narrazione io imbocco uno di questi sentieri imprevisti e conduco
l’ascoltatore, come una guida, in un veloce tour attraverso uno di questi
territori dimenticati e sempre vedo negli occhi di chi mi ascolta la
meraviglia di ritrovare i gesti di un tempo, proprio come quando si visita una
borgata abbandonata di montagna e si vedono ancora le tracce della comunità che
un tempo la popolava.
Con la narrazione io attraverso uno
di quei luoghi che quando sono visitati o riabitati hanno il potere di far
ritrovare l’anima perduta, di ridare un senso alla propria vita, ed è la parola
poetica, intesa proprio come una forma di magia bianca quotidiana.
Io indico un luogo “magico” ma,
naturalmente, ne esistono molti altri.
Posso assicurare che quando ci si trova
tutti insieme e il racconto vive fra le persone non come testo stampato, ma
come esperienza reale, vibrazione vivente, beh, il sapore è decisamente un
altro…
Anche il potere della parola e
dello stare insieme fa parte delle conoscenze perdute.
Io ho molta paura delle generazioni
più giovani che non hanno mai conosciuto quella forma di energia vitale che
scaturisce dall’abbraccio di una comunità vivente e dallo scambio diretto di
idee, che è cosa assai diversa dal fare massa nelle piazze del centro e nulla
ha a che vedere con la comunicazione tecnologica e multimediale… Quando il
mondo sarà in mano a questi giovani deprivati di questa conoscenza, sapranno
ritrovare la strada che porta alla loro anima? Sapranno usare quel potentissimo
‘motore di ricerca’ che non si trova nella rete ma al centro della gabbia
toracica?
Il monologo termina con un invito
sottinteso: ora che conoscete il sentiero, il viaggio potete continuarlo da
soli e domani portarvi dietro anche i vostri amici, i vostri figli, i vostri amanti…
Le prime volte avevo paura di
complicare le cose invece che semplificarle, mi chiedevo se la struttura del
racconto fosse idonea alla causa… questo dubbio l’ho poi perso per strada
perché ora so, per averlo sperimentato molte volte, che anche le persone
all’inizio più serie e scure in volto, al momento di alzarsi dalle sedie sono
decisamente più rilassate e sorridenti.
Il merito naturalmente è mio solo
in parte: è la magia della narrazione a essere una vera forza della natura.
* * *
In giro a raccontare.
Da quando ho cominciato a
raccontare visu a visu alle persone il monologo “Il Funzionamento dell’Uomo” ho acquisito una nuova
sensibilità nei confronti delle persone, delle parole (e del loro uso) e
dell’esperienza artistica in generale. Ho raggiunto non solo gli scopi che mi
ero prefissato all’inizio, ossia far conoscere “Ellin Selae” tramite la
narrazione ma, lungo il cammino, ho raccolto molto più di quanto avevo seminato
in termini di incontri, esperienze, relazioni, opportunità…
Tuttavia ci sono molte cose e molti
posti dove sono stato che se tornassi indietro eviterei.
E questo in quanto, come altre cose
che ho intrapreso in questi anni, anche l’arte della narrazione l’ho sviluppata
nello stile di Robinson Crusoe, ossia arrangiandomi da solo.
Questa via non solo porta a
faticare il triplo, ma anche a fare un sacco di errori grossolani.
Uno degli errori che ho pagato più
cari è stato quello di credere, i primi tempi, che dietro a ogni invito ci
fosse un concreto interesse verso il mio lavoro. Mi pareva impossibile che
qualcuno si prendesse la briga di invitarmi, senza essere almeno un po’
incuriosito dal mio spettacolo.
Che sbaglio! Che ingenuità! …E
quante centinaia di chilometri ho macinato per scoprire che ero stato invitato
da gente totalmente indifferente al lavoro che portavo ma che aveva il problema
di organizzare “una serata” qualsiasi a costo zero nell’ambito di questa o
quella iniziativa.
Ecco quindi che ho capito quello
che un esperto mi avrebbe detto sin dal primo giorno: a chiunque ti inviti ad
andare da qualche parte chiedi sempre un rimborso spese. Questo serve non
soltanto per evitare di rimetterci sempre, ma anche per tastare il grado di
motivazione e la predisposizione degli organizzatori, perché da questo dipende
anche la qualità dell’evento e il tipo di pubblico.
La questione controversa è che
alcuni non capiscono bene chi è che fa un favore a chi… nel senso che il
pregiudizio più diffuso fra gli organizzatori di eventi culturali è che “gli
artisti”, specie quando sono sconosciuti (il che non vuol dire poco bravi ma
soltanto che non sono stati in televisione), abbiano un sacco di tempo da
perdere e siano contenti quando sono invitati da qualche parte anche gratis.
Persone che non fiatano se c’è da
spendere milioni per organizzare una serata di liscio, o che trovano giusto
che un idraulico si prenda cento euro solo per “la chiamata”, quando invece si
parla di teatro si stupiscono se l’attore o la compagnia, che stanno magari a
quattrocento chilometri di distanza, chiedono almeno il rimborso del viaggio.
Non di rado poi ci sono gruppi di
varia natura (pro loco, associazioni, enti…) che ricevono fondi per gestire un
programma di eventi e nell’intento di tenersene il più possibile invitano gli
artisti meno noti nella speranza che questi si accontentino di un piatto di
lenticchie.
Un’altra categoria gravemente
affetta da pregiudizi nei confronti degli artisti è invece quella dei gestori
di attività commerciali quali ristoranti, negozi, birrerie… e talvolta anche
librerie; costoro invitano nel loro locale artisti di varia natura con
l’intento di valorizzare con una spruzzatina di cultura la loro attività
commerciale (dunque l’arte c’entra poco), ma non vogliono per questo spendere
nulla, anzi, non di rado pensano che l’artista invitato a esporre o esibirsi
dovrebbe persino ringraziarli per non aver pagato niente.
Dato che il successo di una
rappresentazione dipende anche dalla promozione e la promozione dipende dal
grado di motivazione di chi organizza, in presenza di questo tipo di
atteggiamenti (e in assenza di un rimborso spese) oggi so che conviene sempre
rifiutare l’invito… troppe volte mi è capitato di farmi convincere a forza e
ritrovarmi poi in una stanza con tre-quattro persone che mi guardavano con
l’aria di chi stava sperando che la faccenda non andasse troppo per le lunghe…
Ora che la lezione l’ho imparata
chiedo sempre un ‘gettone’ di presenza, e così solo un invito ogni venti che
ricevo si concretizza realmente in un appuntamento concreto, ma quando capita ci
vado con passo sicuro, ovunque si trovi: chi investe con il portafoglio investe
sempre anche con il cuore.
Anche questa è una aberrante
distorsione figlia dei tempi con la quale si è però costretti a fare i conti…
Un’altra cosa a cui non ero
preparato e che pensavo fosse difficile che si verificasse, sono le persone
che si addormentano platealmente (nel senso letterale del termine) durante lo
spettacolo.
Davanti alla televisione e talvolta
anche al cinema mi sembra una cosa abbastanza normale, ma pensavo che di fronte
a un cantastorie, ossia a un attore in carne e ossa, fosse difficile perdere i
sensi. E invece…
Sono moltissime le persone ormai
assuefatte ai ritmi televisivi e ai comici che sparano battute a raffica, che
quando si trovano davanti un attore “serio” il cui racconto non è farcito di
gag né di frizzi e lazzi ma, anzi, costringe a impegnare il cervello, cadono in
trance già nella prima mezz’ora.
E questo accade specialmente fra i
giovani e gli adulti, ossia le generazioni “mediatizzate”, mentre gli anziani,
che ritrovano nei racconti orali
strutturati su tempi lunghi qualcosa che faceva parte della loro quotidianità
di un tempo, mantengono l’attenzione costante sino alla fine.
Ricordo con estremo piacere una
serata a beneficio di un gruppo di partigiani, fra cui Ugo Cerrato, intimo
amico di Beppe Fenoglio e il maestro Augusto, comandante partigiano nelle
Langhe, e molti altri di cui non ricordo il nome, che non solo rimasero attenti
dalla prima all’ultima parola, ma dopo lo spettacolo fecero alcune delle
osservazioni più argute che ho avuto occasione di raccogliere strada facendo.
Quella stessa sera c’era anche una
donna sui quarant’anni che si addormentò quasi subito, e fu l’unica alla fine a
dirmi che molte delle cose che avevo detto non le erano piaciute affatto…
dentro di me pensai che forse confondeva il mio spettacolo con i suoi sogni, ma
naturalmente non glielo dissi.
A mia parziale consolazione devo
dire che questo problema tocca anche i grandi artisti, e mi è capitato
recentemente di assistere ad uno spettacolo di Moni Ovadia vicino a un tale la
cui testa ha cominciato sin dall’inizio a cadergli pesantemente in avanti sino
a quando si è arreso a un sonno liberatorio; solo alla fine, quando Moni
Ovadia ha cominciato a raccontare alcune barzellette ebraiche tipiche del suo
repertorio, costui ha smesso di russare e ha cominciato a divertirsi veramente.
Anche qui ho capito solo più tardi,
confidandomi con chi aveva più esperienza di me, che la noia è più spesso nella
mente di chi ascolta una storia che in quella di chi la racconta.
Ho scoperto anche che mentre i
complimenti vengono (per fortuna) fatti a caldo e in maniera diretta, la
disapprovazione arriva sempre per vie traverse, a volte a distanza di settimane
sotto forma di lettere, email o di confidenze fatte ad amici di amici… e, non
di rado, dagli stessi che subito al momento si erano complimentati.
Revisione a posteriori?
Ripensamento? Chi può dirlo. Succede così e basta.
Fin dall’inizio mi ero reso conto
che correvo anche un altro rischio: quello di venir scambiato per un prete. I
preti infatti fanno monologhi continuamente, anche se li chiamano “prediche”,
e, tutto sommato, quando un attore non interpreta un ruolo bensì è soltanto sé
stesso che racconta, può a tutti gli effetti dare l’impressione di essere un
prete che fa la predica.
Al fine di scongiurare questo
pericolo ho sempre sfruttato, sin dall’inizio, una caratteristica del Teatro
di Narrazione che lo contraddistingue verso le altre forme teatrali, ossia
l’assenza della ‘quarta parete’ che impone l’oblìo del pubblico.
Ascoltare non richiede meno
partecipazione che raccontare, e così ho sempre evitato di escludere il
pubblico ma, anzi, l’ho sempre coinvolto direttamente ogni qual volta il
racconto o gli eventi (anche imprevisti) me ne offrivano l’opportunità. Oltre a
questo, ho inframmezzato il mio racconto di autoironia e autocritica (qualità
che si riscontrano assai raramente nei preti) e nel tempo ho avuto conferme
decisamente superiori alle aspettative: il registro che avevo scelto funzionava
molto bene.
Grazie a questo ora dispongo di una
‘poetica’, per usare un parolone, che si confà decisamente alle mie scarse
possibilità attoriali, frutto più del caso che delle intenzioni.
Sono, come dire, come quelli che
usciti per andare a castagne tornano con il cestino pieno di porcini.
La stessa mistura di
serio e faceto l’ho poi adottata anche per scrivere il saggio sulla narrazione
che ho appena pubblicato. Partendo da tutta la documentazione, il materiale di
lavoro e di studio sul Teatro di Narrazione che avevo raccolto, ho però
raccontato anche le difficoltà pratiche e gli imprevisti (a volte tragicomici)
nei quali può capitare di inciampare lungo l’“esercizio sul campo” del racconto
orale, avvalendomi delle testimonianze dirette, raccolte anche nel libro, di
alcuni protagonisti della narrazione, quali Ascanio Celestini, Laura Curino,
Play Magliano, Raul Montanari, Tiziano Scarpa, Stefano Tamburrini e altri
ancora.
Ho cercato poi di mettere l’accento
su questioni marginali di cui, chissà perché, solitamente mai nessuno parla.
Per esempio su nessun trattato ho mai trovato consigli sul da farsi quando a
metà di uno spettacolo all’aperto arrivano dei motociclisti ignari che
parcheggiano le rombanti moto proprio nello spazio fra l’attore e il pubblico,
cosa che a me è successa, tuttavia in un libro che trattava dell’esperienza dei
cuntisti siciliani Mimmo Cuticchio spiegava come si comportava quando si trovava
in presenza di spettatori che disturbavano la rappresentazione. E così,
mescolando i grandi insegnamenti dei maestri con le piccole disavventure del
giovane discepolo, ho cercato di rendere l’idea di quello che può succedere e
che davvero succede quando si va in giro a raccontare.
Il segreto comunque, qui lo dirò in
breve, è trasformare in teatro anche ciò che altrimenti sarebbe stata soltanto
sfortuna.
La cosa più importante che ho
capito durante questi anni, è che quando ci si trova in carne e ossa fra
persone fatte di carne e ossa tutto quello che succede è comunque vita, mondo,
anima… ossia qualcosa di gran lunga più prezioso e auspicabile degli
ectoplasmi che comunicano (senza incontrarsi mai) mediante le protesi
tecnologiche e multimediali che si sono sostituite alle mani, agli sguardi, ai
colori e alle sensazioni che scaturiscono solo quando l’incontro fra esseri
viventi è reale, e non virtuale.
La narrazione orale esisteva prima
del limbo tecnomorfo dei media, ed è per questo che ci riporta a quell’epoca,
l’infanzia (nostra e del mondo) in cui il racconto era il luogo privilegiato
dell’anima.
Oggi l’anima è seriamente attaccata
e danneggiata da uno stile di vita, quello consumistico, che non ne ha bisogno
e pertanto la esclude, la evita, la emargina, la rifiuta, la abbandona… e non
ci si accorge che barattando l’anima con le merci, gli esseri umani stessi
corrono il rischio di diventare merce a loro volta.
Aprire delle brecce nei muri che ci
circondando e sconfiggere l’avanzata del tedio e del brutto.
Anche per questo il Teatro di Narrazione
adesso è così importante, anche per questo non dobbiamo mai stancarci di
ascoltare le storie e farci, a nostra volta, raccontatori di storie.
In fondo è questo, da sempre, il
compito dell’arte, di tutta l’arte.
Il filosofo e insigne biblista Paolo De
Benedetti ad Asti (aprile 2008) in attesa che inizi «Il Funzionamento dell’Uomo»,
mentre legge un libro di Franco Del Moro appena acquistato al
banchetto alle sue spalle.
Sotto insieme all’Autore poco prima del
monologo.
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